Rapporti tra opera e fruitore nelle origini dell’installazione sonora (1900–1966)
von Giacomo Albert
Zusammenfassung.
Ein Merkmal, das die Klanginstallation als Gattung definiert, ist die Beteiligung des Zuschauers an dem Werk: Er nimmt, nachdem er in den Raum des Werkes eingetreten ist, eine aktive Rolle an. Das Werk erhält dadurch eine theatralische und erfahrungsgestaltende Dimension, eine zunächst über den Raum definierte Kunst erschließt die Zeitlichkeit. Dieser Beitrag analysiert die theatralische Dimension, das heißt die "modale Struktur" der Klanginstallationen aus der ersten Periode der Gattung bis 1967 (sowohl interaktive, als auch nicht-interaktive Werke). Die Analyse zeigt verschiedene Modelle von Theatralität für die ersten Jahre der Gattung, welche die Vielfältigkeit der Wurzeln der Gattung spiegeln. Gemeinsam ist diesen Experimenten, dass sie die Beteiligung des Zuschauers anstreben: eine Strategie, dessen Ursprünge in der Ästhetik und in den Experimenten der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts liegen, aber seit 1955 deutlich hervortritt.
Abstract.
One feature that defines sound installation as a genre is the participation of the user. Upon entering the space of a work, the user assumes an active role. Thereby the work takes on a theatrical and formative dimension: an art initially defined through space reveals its temporality. This essay analyzes the theatrical dimension, that is, the "modal structure," of works up to 1967, the first period of the sound installation genre. Both interactive and non-interactive works are considered. The analysis shows various models of theatricality for the first years of the genre, during which a diversity of origins and genealogy is reflected. What is common to these experiments is that they seek to involve the viewers, a strategy whose roots lie in the aesthetics and experiments of the first half of the twentieth century, but which since 1955 has become conspicuous.
1. Introduzione
Il presente saggio inizia con una breve analisi del concetto 'installazione sonora'; in un secondo momento si fornirà uno studio sistematico dei primi esempi, che a mio avviso sono classificabili sotto questa etichetta, molti dei quali finora non sono mai stati presi in considerazione dalla letteratura musicologica. Lo studio sarà condotto attraverso un'analisi del rapporto che le opere instaurano con il fruitore, per considerarne la teatralità, concetto su cui si ritornerà in seguito, e per valutare il modo in cui esse costruiscono l'esperienza dell'opera da parte del fruitore.
Classificare un'opera all'interno della categoria installazione sonora è un'operazione rischiosa, dal momento che il genere ha una definizione quanto mai problematica. Ogni libro o saggio inerente il genere e la sua storia cita, quale origine, l'auto-attribuzione della coniazione del termine da parte di Max Neuhaus nella definizione della sua opera Drive-in Music del 1967.1 Inoltre vengono sovente citati uno o più esempi di opere che, pur antecedenti a tale data, ne anticipano la forma. Recentemente Volker Straebel ha inaugurato uno studio sistematico della storia dell'installazione sonora precedente il 1967, la "preistoria" del genere; il presente saggio si inscrive nel solco di questo studio.2
L'incertezza immanente alla definizione dell'installazione sonora è riconducibile a più motivi: in primo luogo la locuzione, pur composta da sole due parole, costituisce un ossimoro, dal momento che un'arte per definizione multimediale quale l'installazione viene circoscritta a un singolo medium, il suono. In secondo luogo, la definizione del genere installativo è a sua volta problematica. Infine, nel corso degli anni la locuzione ha assunto molteplici significati a seconda del contesto e dell'estetica all'interno della quale si inscriveva.
Lo stretto legame fra l'estetica di Neuhaus e la definizione che fornisce3 rende quest'ultima non funzionale a una trattazione del genere; in questa sede, dunque, si tratterà l'installazione sonora più che come genere a sé stante, come sottogenere dell'installazione, scontrandosi subito con la problematicità intrinseca alla sua definizione.
Nel più prestigioso dizionario enciclopedico di materie artistiche, Jane Turner ha definito l'installazione come segue:
Installation [Environment]. Term that gained currency in the 1960s to describe a construction or assemblage conceived for a specific interior, often for a temporary period, and distinguished from more conventional sculpture as a discrete object by its physical domination of the entire space. By inviting the viewer literally to enter into the work of art, and by appealing not only to the sense of sight, but also, on occasion, to those of hearing and smell, such works demand the spectator's active engagement.4
Il concetto di installazione è qui delineato a partire dalla somma di una serie di caratteristiche, che concorrerebbero a determinarlo come genere. Manca dunque un principio unitario nella definizione, la quale consta di una costellazione di qualità, alcune necessarie, altre solo possibili. In realtà questa definizione corrisponde solo in maniera parziale alla descrizione delle opere solitamente classificate come installazioni, e in sé non costituisce un principio chiaro.
L'installazione è dunque un genere complesso, che contraddice la suddivisione lessinghiana tra arti spaziali e temporali5: è arte spaziale e simultanea, dal momento che è prodotto della composizione di uno spazio, ma è altresì temporale, dal momento che questo spazio è da intendersi anche come situazione, che agisce in maniera temporale. Una tale complessità, peraltro, deriva dal fatto che il genere non è sorto per effetto di una volontà univoca, a partire da un'opera fondativa o da un'elaborazione teorica, ma è nato dal dissolversi dei confini formali delle arti, dal rifiuto da parte degli artisti di un sistema intoccabile delle Belle Arti, dal loro lavoro, dalle loro sperimentazioni su nuovi materiali, nuove estetiche, nuovi spazi in cui portare l'arte, nuove identità sociali del fare artistico.
Non resta dunque che prendere atto della problematicità intrinseca alla definizione del genere e tentare di individuare, da un punto di vista storico, le principali questioni estetiche da cui si è sviluppata la prassi installativa. Nel saggio si prenderà in conto una di queste: la partecipazione del fruitore all'opera. Tuttavia, prima di procedere in questo senso, occorre innanzitutto cercare di comprendere perché questa specifica dimensione risulti particolarmente importante.
Anche Julie H. Reiss, come la Turner, pur negando la possibilità di raggiungere una definizione soddisfacente dell'installazione, afferma che "although its definition is somewhat elusive, the term can be used to describe works that share certain key characteristics".6 Le principali caratteristiche che accomunerebbero le opere solitamente classificate come installazioni sono le seguenti:
There is always a reciprocal relationship of some kind between the viewer and the work, the work and the space, and the space and the viewer. One could argue that these qualities define many artistic practices. To refine the definition further, therefore, one might add that in creating an installation, the artist treats an entire indoor space (large enough for people to enter) as a single situation, rather than a gallery for displaying separate works.7
Anche nella definizione della Reiss si osserva un duplice principio: la composizione di uno spazio, dunque la definizione di un'architettura mediale, e la creazione di una situazione unitaria, ossia di una struttura modale.8 Il presente saggio intende porre alcuni interrogativi in particolar modo sulla seconda, ossia sulla struttura modale delle opere che costituiscono il primo repertorio di installazioni sonore. Si intende cioè analizzare le opere in quanto creatrici di un'esperienza per il fruitore; ciò comporta l'osservazione dell'opera come progetto estetico rivolto a un agente esterno che la deve esperire, vivere.
Già Brian O'Doherty, nei suoi essenziali saggi sull'estetica, la sociologia e le forme del white cube, universalmente ritenuti tra i più importanti riguardo alla teoria delle installazioni, metteva in evidenza la centralità del ruolo dello spettatore o, come diremmo oggi in una visione multimodale, del fruitore. Affermava, ad esempio, che:
Art conjugates him, but he is a sluggish verb, eager to carry the weight of meaning but not al-ways up to it. He balances; he tests; he is mystified; demystified. In time, the Spectator stumbles around between confusing roles: he is a cluster of motor reflexes, a dark-adapted wanderer, the vivant in a tableau, an actor manqué, even a trigger of sound and light in a space land-mined for art. He may even be told that he himself is an artist and be persuaded that his contribution to what he observes or trips over is its authenticating signature.9
In realtà già diversi anni prima della pubblicazione dei saggi di O'Doherty gli artisti avevano incentrato sul ruolo del fruitore le loro riflessioni, da cui erano scaturiti concetti come participant e forme artistiche come l'happening, entrambi teorizzati da Kaprow. Tuttavia, i riferimenti in questo senso non si esauriscono con Kaprow, ma si estendono alle poetiche della maggior parte degli artisti degli anni Sessanta, da Nam June Paik a James Turrell, così come ad altri che, a un'analisi superficiale, potrebbero apparire meno coinvolti nella dimensione modale delle opere, come Jiro Yoshihara.10 Nel presente saggio saranno messe sotto la lente di ingrandimento le forme di theatricality, di teatralità, sviluppate nell'ambito della prima produzione di installazioni sonore.
Il concetto di teatralità è stato al centro di un lungo dibattito interdisciplinare, nell'ambito del quale ha assunto molteplici significati, a seconda della teoria estetica in cui era di volta in volta inscritto o che contribuiva a fondare.11 Si fa qui riferimento al concetto sviluppato da Michael Fried nei confronti dell'arte minimalista, spogliato dell'originaria connotazione negativa.12 Si intendono dunque qui come teatralità di un'opera le forme e le strategie per il coinvolgimento del fruitore che essa mette in atto, una volta accertato che questo coinvolgimento è parte integrante del suo stesso statuto. Fried, infatti, afferma che l'opera, almeno a partire da Cage, ma più specificamente con riguardo alla produzione plastica minimalista, include il fruitore, dal momento che si espone a lui non per le sue proprietà oggettuali, ma per quelle "teatrali". Egli afferma che "literalists work of art must somehow confront the beholder – they must, one might almost say, be placed not just in his space, but in his way. […] the entire situation means exactly that: all of it – including the beholder's body". Passando in rassegna la storia delle installazioni sonore sul piano della forma delle opere e della poetica degli artisti coinvolti, è possibile rintracciare una molteplicità di forme di coinvolgimento attivo, che potremmo definire come altrettanti modelli di struttura modale dell'opera.
2. Genesi dell'installazione sonora: introduzione e primi esempi (1900–1954)
Tentare di delineare la storia di un genere i cui confini formali hanno una definizione così labile è sicuramente un'operazione rischiosa. Se il genere è definito dall'intersezione di molteplici problematiche estetiche, che riguardano diversi ambiti e generi, piuttosto che dalla volontà di inventare una specifica forma d'arte, la classificazione delle opere all'interno delle singole categorie presenta numerose sovrapposizioni e spazi bui. Ciononostante, è utile provare a osservare, attraverso la storia delle opere, le modalità con cui l'evoluzione estetico-artistica ha prodotto un nuovo genere.
Le prime ricerche significative nell'ambito delle arti sonore verso una problematizzazione dei rapporti tra fruitore, spazio e opera (i tre attanti della definizione della Reiss citata in precedenza), risalgono alla prima metà del Novecento;13 ciononostante, solo nel secondo dopoguerra le ricerche hanno indotto una prassi artistica comune, almeno nell'ambito musicale/sonoro. Si possono, infatti, citare alcuni esempi di opere risalenti alla prima metà del XX secolo, classificabili in sottogeneri dell'arte installativa, che presentano anche un'importante dimensione sonora. Ad esempio, l'ambiente principale dell' Exposition Internationale du Surréalisme (Parigi, 1938, Galerie Beaux-Arts di Georg Wildstein), curato da Marcel Duchamp con l'aiuto di Man Ray per l'illuminazione, prevedeva la diffusione di risa isteriche registrate in un manicomio, attraverso alcuni altoparlanti celati alla vista del fruitore14. Questi suoni avevano lo scopo di spaventare il fruitore, scuoterlo, investirlo emotivamente, veicolargli una sensazione di disagio, togliergli la voglia di scherzare o ridere. L'ambiente realizzato da Duchamp è uno spazio, un interno, costruito in tutte le possibili dimensioni, anche in quella olfattiva, e finalizzato alla progettazione di un'esperienza multisensoriale. È sicuramente un'installazione ante litteram, che sottende anche una profonda riflessione sulla dimensione sonora: il fatto che l'altoparlante, ossia il dispositivo mediale, sia nascosto alla vista, è una classica tecnica di tipo immersivo, che serve a non attirare l'attenzione del fruitore, facendo sì che questi attribuisca la dimensione emozionale veicolata dai suoni all'opera, e non a una tecnologia o tecnica particolare.
Alla prima metà del Novecento risalgono anche opere afferenti a generi prossimi all'installazione sonora, o con questa ibridi, come "l'installazione concertante" o, forse meglio, "installazione performativa". In quest'ultima categoria ricadono numerose opere, differenti tra loro, quali ad esempio le installazioni di Stockhausen, da lui stesso definite "Raummusik"15, Rainforest IV di David Tudor, definita da John Driscoll "performing installation"16, e le Musikalische Räume, sottogenere ben identificato e classificato da Helga de la Motte-Haber17: tutte forme, pur diversificate, di ibridazione tra performance e installazione.
Alla categoria "installazione performativa" appartiene a pieno titolo anche la Partiturskizze zu einer mechanischen Exzentrik progettata dell'artista ceco László Moholy-Nagy già nel 1925, e pubblicata nel 4° volume dei Bauhausbücher curato da Walter Gropius18. L'opera si inscrive nel Theater der Totalität teorizzato da Moholy-Nagy e, come annunciato dal sottotitolo, prevede una "sintesi di forma, movimento, suono, luce (colore)". Al di là della concezione multimediale di stampo sinestetico, che si ravvisa nella giustapposizione e sincronizzazione delle forme in movimento, delle proiezioni, dei colori e dei suoni, si può notare come la composizione della dimensione sonora sia qui strutturata secondo due funzioni distinte: una dimensione musicale scritta in notazione "aperta", e alcune sirene, indicate in partitura attraverso strisce colorate.
Nel saggio che precede immediatamente la partitura, Theater, Zirkus, Varieté, l'artista boemo teorizza dispositivi di riproduzione acustica meccanica o elettrica, che eseguono suoni, musica o parole in maniera inaspettata, disposti sotto le sedie del pubblico, sotto il pavimento o in altri luoghi non convenzionali. L'idea è quella di stupire il fruitore attraverso uno spettacolo multimediale complesso (ad esempio, le forme in movimento e le proiezioni della Partiturskizze zu einer mechanischen Exzentrik richiedono l'uso di ben tre palchi su piani diversi), in grado di sollecitare i suoi sensi da molti punti di vista, attraverso i movimenti delle forme e le corrispondenze delle geometrie. Se, da una parte, la partitura prevede una dimensione performativa e una concezione lineare della temporalità, dall'altra la distanza tra spazio della rappresentazione e spazio della fruizione è erosa, dal momento che il fruitore "entra" nell'opera. Egli può spostarvisi, scoprirne diverse dimensioni, scegliere a che cosa avvicinarsi.19
Ho citato due esempi di installazione dotata di un'importante componente sonora, risalenti alla prima metà del secolo: entrambi sono basati su una spazialità complessa, di matrice installativa, e prevedono una diversa relazione tra opera e fruitore. Ciononostante, non ritengo si possa affermare che il genere installazione sonora nasca già nella prima metà del Novecento, per tre motivi: in primo luogo perché finora ho rinvenuto solo pochi esempi di arte installativa in cui la dimensione sonora assurge a un rango così importante, in secondo luogo perché in nessuno degli esempi citati questa dimensione è preponderante, e in terzo luogo perché né Duchamp, né Moholy-Nagy sono compositori.
In realtà, nonostante le significative sperimentazioni, ben note alla musicologia, che hanno contraddistinto l'arte musicale della prima metà del Novecento, le problematiche legate alla dimensione spaziale, all'abbandono della concezione lineare del tempo musicale e, di conseguenza, della forma come gestione di una molteplicità di dimensioni a partire da una loro strutturazione nel tempo, non erano ancora state messe a tema in maniera radicale, almeno in quei linguaggi che all'epoca erano considerati luogo del progresso musicale. Era sicuramente possibile intravedere nuove forme di temporalità, sia nel montaggio tipico del neoclassicismo stravinskiano, sia nei principi dodecafonici di organizzazione dello spazio armonico, sia nella concezione umoristica di Satie, ma la riflessione dei compositori non si era ancora spinta fino a negare la validità dei principi organizzativi fondamentali della musica.
L'idea basilare di un'installazione sonora prevede la concezione di una temporalità infinita e acentrica, costellativa: una concezione ancora lontana dalla sensibilità dell'epoca.20 Soprattutto, gli spazi e le forme sociali della diffusione musicale non furono radicalmente messi in crisi nel corso della prima metà del Novecento; solo attraverso la rottura di questi spazi e forme è stato possibile mettere in discussione il ruolo del fruitore e la sua relazione con l'opera, trasformandola da luogo della rappresentazione in motore della partecipazione e dell'esperienza.
Inoltre, a mio avviso, esistono anche fattori di ordine tecnologico: nella prima metà del Novecento le tecnologie di riproduzione sonora erano diffuse, ma anche costose e poco flessibili. La forma primaria dell'installazione sonora non prevede la presenza di un esecutore-performer e, dunque, richiede una tecnologia di automazione capace di generare suono. Nella prima metà del secolo era possibile soddisfare questa esigenza in maniera meccanica, all'interno di un genere di antica tradizione come la scultura sonora, incentrato su oggetti, strumenti automatici o comunque in grado di produrre autonomamente suoni, che conobbe un'amplissima diffusione proprio nella prima metà del secolo. Più difficile, invece, era la sonorizzazione di uno spazio, che richiede tecnologie più complesse di diffusione del suono.
3. Modelli di 'performance' e di 'teatralità' nelle prime installazioni sonore: 1955–1966.
A partire dal 1955, nella storia della musica e, più in generale, in quella delle arti sonore si riscontra una quantità crescente di opere i cui confini formali ne consentono una classificazione all'interno della categoria installazione sonora. Vi si dedicano artisti, ma anche compositori quali Edgard Varèse, Dieter Schnebel, Pietro Grossi, Nam June Paik e Robert Ashley. Di seguito si prenderanno in esame le forme di teatralità, di engagement, e di partecipazione del pubblico che le prime installazioni sonore mettono in atto, attraverso un'analisi delle loro strutture modali.
3.1 Installazioni sonore interattive
La prima installazione sonora che ho incontrato nel delineare una panoramica complessiva del genere è Work (Bell) di Atsuko Tanaka, opera esposta per la prima volta tra il 19 e il 28 ottobre 1955 in occasione della I Esposizione Gutai presso la Ohara Kaikan Hall di Tokyo e, poco dopo, inclusa nella terza esposizione Genbi, la mostra sperimentale di arte moderna all'aperto tenutasi sulle sponde del fiume Ashiya nell'ambito di un evento sponsorizzato dalla Ashiya Municipal Art Association (Asahi Building Hall, Kobe, 13–19 dicembre; Museo Civico, Osaka, 24–28 novembre; Museo Municipale di Kyoto, 1–5 dicembre).
I confini formali dell'opera sono compatibili con qualsivoglia teorizzazione del genere si adotti come riferimento, il che ne fa un unicum nel panorama artistico dell'anno 1955.21 La forma dell'opera cambia da esecuzione a esecuzione, adattandosi all'ambiente, alla stanza in cui è inclusa e al suo perimetro. Rimangono pertanto variabili la forma e le dimensioni dell'opera, così come il volume prodotto dai campanelli, diversi per ogni versione.22
L'opera è interattiva: la sequenza di campanelli viene attivata attraverso un atto cosciente del fruitore; questi, infatti, è invitato a compiere l'azione da un cartello, che segnala il pulsante di attivazione del meccanismo. Il fruitore è dunque pienamente consapevole del suo ruolo all'interno dell'opera, e ne gestisce in piena coscienza il meccanismo di attivazione e spegnimento. L'opera non esiste senza la sua scelta di avviare il processo: nel caso in cui egli non compia alcuna azione, essa rimane silenziosa.
L'artista si era prefissata molteplici obiettivi. Da una parte voleva "dare una brusca sveglia al mondo dell'arte"23; inoltre, voleva compiere un gesto pittorico, disegnare attraverso il suono e, nel contempo, far percepire il movimento attraverso un elemento immateriale come il suono.24 Secondo diverse testimonianze coeve, come quelle di Kazuo Shiraga e Akira Kanayama apparse sul 4° Vol. di Gutai, l'artista aveva cercato di rendere poco visibile il dispositivo elettronico, in maniera tale da lasciar risuonare il libero suono, affrancato dalla sua dimensione materiale. Questo procedimento amplifica la dimensione plastica, pittorica del lavoro nella misura in cui la modulazione della dinamica del suono viene correlata allo spazio dell'opera e non alla costruzione, al dispositivo mediale.
Occorre inoltre mettere in risalto un'ulteriore proprietà dell'opera, comune a molte altre installazioni sonore, che emerge dal resoconto di Jiro Yoshihara:
quando avevamo quasi finito di sistemare i vari esemplari, all'improvviso abbiamo sentito e-cheggiare attraverso la sala i suoni striduli delle campane. Era il segnale che l'opera con campane di Atsuko Tanaka era stata finalmente completata. Il suono rimbalzava per i due piani come un animale vivo.25
Yoshihara sottolinea la pervasività della dimensione sonora rispetto a quella visiva: il suono dell'opera oltrepassa le barriere architettoniche, e in tal modo condiziona anche le altre opere in mostra. Finora, infatti, si è parlato esclusivamente del fruitore principale dell'opera, di colui che aziona il meccanismo. A costui, tuttavia, l'artista attribuisce una responsabilità anche nei confronti degli altri visitatori, presenti sia all'interno del perimetro dell'opera sia negli ambienti circostanti. Nonostante questo aspetto non venga rilevato dai colleghi e dai critici della Tanaka, esso diviene tanto più rilevante, quanto il suono prodotto dai campanelli è aspro, e il volume alto.26
La struttura modale di Work (Bell) è interattiva e racchiude in sé una duplice natura: da una parte la semplice fruizione della dimensione plastica del suono da parte di colui che attiva il meccanismo (e degli altri fruitori, anche se da una diversa prospettiva), dall'altra il suo rapporto con gli altri fruitori, nella creazione di quella che possiamo definire la dimensione sociale dell'opera: l'attivatore è responsabile verso gli altri fruitori. Anche questi ultimi, inoltre, percepiscono la dimensione plastica, ma in maniera meno consapevole rispetto a colui che attiva il meccanismo. Si tratta, dunque, di una struttura modale interattiva, con due sfumature differenti: da una parte la partecipazione cosciente e attiva del fruitore, dall'altra parte la fruizione meno consapevole degli altri fruitori, il puro godimento del disegno sonoro.
Si può definire la prima delle due tipologie individuate come un'interattività di tipo partecipativo, sulla scorta del concetto kaprowiano.27 Ad esempio, il fruitore di Words, installazione multimediale creata da Kaprow nel 1962, può scegliere quali parole scrivere nello spazio dell'installazione e quale musica suonare. Entrambe le scelte determinano l'ambiente circostante; il principale obiettivo dell'artista in questo caso, a differenza delle intenzioni della Tanaka, è osservare la gestione della socialità da parte dei fruitori, per renderli consapevoli dell'importanza del proprio ruolo nella definizione dell'ambiente in cui vivono. Una tale concezione dell'opera, di sapore cageano, è ampiamente riscontrabile nelle opere della sua 'scuola'.28
Analizzando la prima produzione di installazioni sonore e multimediali si può osservare come l'interattività sia stata declinata in una molteplicità e varietà di modelli. Differente rispetto alle opere prese in considerazione finora è la Caverna dell'antimateria, realizzata da Pinot Gallizio. Dopo una presentazione in anteprima, seppure in tono minore, a Torino, l'opera fu esposta presso la Galleria Drouin di Parigi nel maggio del 1959, ma l'artista albese l'aveva concepita fin dal 1957, e aveva iniziato a lavorarvi attivamente a partire dal gennaio 1958. L'installazione prevedeva l'uso di un interessante dispositivo elettroacustico realizzato dal fisico Gege Cocito, il Tereminofono, collocato dietro le tele di 'pittura industriale' realizzate da Gallizio e da suo figlio Giors Melanotte, che ricoprivano la stanza.29 Il nome dello strumento deriva dal suo essere parzialmente assimilabile a un enorme Theremin, il cui campo di azione era costituito dalla stanza stessa. Il movimento degli spettatori nella stanza modificava il segnale di un oscillatore, che a sua volta ne modulava un altro a frequenza fissa; lo spostamento degli spettatori, dunque, serviva per gestire la frequenza e l'ampiezza del segnale generato e amplificato nell'ambiente. Dalla corrispondenza di Gallizio si desume come il Tereminofono non fosse pensato come dispositivo atto alla sola generazione dei suoni, ma fosse anche idoneo a gestire la diffusione di eventi sonori preregistrati attraverso una modulazione della lettura di nastri, che in un primo momento avrebbero dovuto essere realizzati da Walter Olmo; la gestione sarebbe stata realizzata attraverso una variazione di tensione elettrica proporzionale a quella del segnale, che avrebbe gestito i magnetofoni per la riproduzione del suono.30 I progetti per la realizzazione di un simile dispositivo da parte di Gallizio e Cocito iniziano almeno a partire dal giugno 1957, e lo strumento venne adoperato già nel maggio del 1958 per la prima mostra di pittura industriale presso la Galleria Notizie di Torino.31
È interessante in questa sede sottolineare come il Tereminofono fosse un dispositivo interattivo, che creava sonorità "altre", lontane sia dal mondo sonoro quotidiano, sia da quello musicale comune. Il fruitore non vedeva né il dispositivo, né la sorgente del suono, nascosti entrambi dietro le tele di Gallizio, e veniva così investito da un suono per lui sconosciuto, sebbene correlato al suo proprio movimento nello spazio. Il meccanismo di attivazione e di gestione della dimensione sonora era dunque celato alla conoscenza del fruitore, a differenza di quelli utilizzati nell'opera di Tanaka e in quelle di Kaprow e Cage citate in precedenza. Questo comporta una fruizione differente, e quindi una diversa dimensione 'teatrale' dell'opera. Nella Caverna, il fruitore viene sorpreso dal suono e la sua interazione con esso è più intuitiva che razionale: prende infatti avvio dalla relazione con le altre modalità di percezione, con gli altri sensi. Il fruitore impara il modo in cui il suono cambia attraverso il proprio spostamento fisico nell'ambiente, attraverso la reazione del suo corpo con esso. Il suono è quindi gestito dal senso cinestesico, e l'ascolto correlato all'intero corpo del fruitore. Se la concezione del suono latente nell'opera di Tanaka è di tipo spaziale-pittorico, in quella di Gallizio è più complessa ed è in parte legata al senso cinestesico, in parte alla convergenza di tutte le modalità. Si può ravvisare una simile concezione anche negli scritti di Gallizio stesso, in particolare in un passo da una lettera dell'8 dicembre 1958 che l'artista inviò al gallerista Drouin, descrivendogli l'opera, o almeno quella che all'epoca era la sua idea di ciò che essa sarebbe dovuta diventare:
Nella mia caverna basterà uno specchio – piano – concavo o convesso per creare un labirinto – a nostro piacere un gioco di luce creerà immagini fantastiche – sarà la luce ultravioletta – normale – infrarossa calda – alta-bassa – o riflessa con superficie metallica esterna o portata semplicemente dagli spettatori a mo' di torcia – che renderà complice ed attore ogni intervento che sarà preso nell'ambiente – dobbiamo far giocare gli uomini con dei gesti semplici – elementari rendendoli parte viva del nostro ingenuo spettacolo – Basterà così che uno di noi avvicini un punto della sala perché un urlo magico del mio apparecchio elettronico li svegli e li impaurisca (pittura parlata) – l'aroma resinoso ambientale desterà l'olfatto – memoria portando gli attori come in una giungla irreale – che solo la presenza di una realtà provvisoria di materia combinata (la mannequin da noi vestita) potrà diradare. Un sottofondo musicale come di un film che scorre dietro o di un mare che batta sotto – creerà l'atmosfera ansiosa ed angosciosa di un mondo in formazione.32
L'interesse dell'artista è rivolto allo spettatore: Gallizio intende creare un ambiente artificiale, interamente costruito e coerente, che coinvolga pienamente il fruitore, sollecitando tutti suoi modi di percezione. L'opera è completata dal fruitore o meglio, come afferma lo stesso Gallizio poco oltre nella medesima lettera: "Le emozioni che avremo provocate – rimarranno soltanto nello spazio e nel tempo che noi abbiamo creato".33 L'opera vive nella sua dimensione "teatrale", non nella sua struttura astratta. L'uso degli specchi e i giochi di luce sottolineano la dimensione effimera, transitoria, teatrale e performativa dell'opera stessa. L'opera intende colpire e coinvolgere in un gioco magico il fruitore, che deve interagire con essa senza giungere a comprenderne i meccanismi di funzionamento, che generano l'"urlo magico" udibile nel momento in cui egli si avvicina alle pareti, ma anche i riflessi e i giochi di luce che deformano la sua percezione dello spazio.
Inoltre l'opera, pur essendo componibile in maniera autonoma nelle diverse dimensioni mediali, non è scomponibile nelle sue singole dimensioni. Lo stesso Gallizio afferma che, sebbene si possano vendere singolarmente le singole tele di pittura industriale, in realtà esse, distinte dalla Caverna, perdono ogni significato e ne costituiscono solo una memoria sbiadita.34 La concezione multimediale della Caverna dell'antimateria, dunque, non è semplicemente basata sulla sinestesia dei diversi media: essi convergono nella creazione di un'emozione unitaria nel fruitore, nel gioco magico con cui egli si confronta, e quindi nella teatralità dell'opera, o dell'azione. Il collegamento tra i media non risiede nella loro corrispondenza, nella coincidenza di alcune caratteristiche esteriori, o nelle forme, bensì nel loro contemporaneo agire sulla percezione del fruitore. I media non si fondono perché condividono caratteristiche simili, ma perché agiscono nello stesso momento sul fruitore, creando un'esperienza indivisibile.
Potremmo definire una simile concezione come multimodale e immersiva, ossia rivolta verso una fusione dei modi di percezione e verso una forma comunicativa non mediata da forme culturali stratificate. La Caverna, in realtà, realizza solo in parte una simile concezione, soprattutto per quanto concerne l'immersività, seguendo una traccia che era già stata abbozzata nell'ambiente principale della Exposition Internationale du Surréalisme di Duchamp, trattato in precedenza.
La panoramica finora delineata dei modelli di interattività nella prima produzione di installazioni sonore, nonostante la varietà riscontrata, risulta incompleta. Non ho ad esempio citato le opere più celebri, le Expositions/Ausstellungen di Nam June Paik, dagli ultimi ambienti della Symphony for 20 Rooms alla Exposition of Music. Electronic Television, dal momento che sono ben note alla letteratura musicologica e ancor più a quella di ambito artistico; perciò farò qui riferimento solo a poche caratteristiche di alcune opere realizzate dall'artista coreano per la Exposition of Music. Electronic Television.35
Opere come Random Access, Schallplatten-Schaschlik, ma anche Listening to Music through the Mouth e i pianoforti preparati, sono dispositivi elettroacustici (nel caso dei pianoforti, acustici) defunzionalizzati. Il fruitore è portato, attraverso una strana interazione con un dispositivo di uso comune, a riflettere sulla natura del dispositivo stesso, ma anche su quelle del suono e delle forme culturali legate alla musica. Si tratta di opere interattive, che vengono lentamente "scoperte" dal fruitore attraverso la loro manipolazione. La fruizione dell'opera è mediata da un'esperienza di tipo ludico-esplorativa, attraverso la quale il fruitore comprende e reinterpreta degli oggetti di uso quotidiano. Si tratta dunque di una forma di interattività ancora diversa rispetto a quelle considerate finora: il fruitore vede il dispositivo, ma non ne comprende il funzionamento, dal momento che esso agisce in maniera per lui inusuale e difficile da immaginare a priori; l'interazione con l'opera spinge il fruitore a reinterpretare il rapporto con il suono, con il medium e con il proprio corpo.
Si possono rinvenire ulteriori modelli di teatralità anche solo rimanendo nell'ambito delle installazioni sonore interattive realizzate nei primi anni di storia del genere. Ad esempio, Soundings (1968) di Robert Rauschenberg si basa sulla trasduzione dei segnali acustici captati da microfoni, che controllano la tensione della luce elettrica, la quale retro-illumina alcuni pannelli di plexiglas decorati in modi diversi e posti su piani differenti, generando una continua variazione di forme visive che scaturiscono dai suoni presenti nella stanza.36 Ma si potrebbero citare anche molte altre installazioni interattive del medesimo periodo: basti pensare che, proprio nella seconda metà degli anni Sessanta, Myron Krueger inizia a creare le prime opere classificabili sotto l'etichetta di Virtual Art, una tipologia di arte interattiva per lo più digitale, che in molti casi presenta un'importante componente sonora.37
3.2 Installazioni sonore non interattive
Dalla panoramica fin qui esposta si potrebbe dedurre che il repertorio del primo decennio di installazioni sonore sia caratterizzato unicamente da molteplici e variegate sperimentazioni su spazi interattivi. Una simile deduzione sarebbe, però, erronea: l'interattività costituisce solo uno dei modelli di 'teatralità' che caratterizzano la nascita delle installazioni sonore. In realtà, sebbene si ritenga solitamente l'installazione sonora un prodotto della fine degli anni Sessanta, già a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta si riscontrano numerose opere, differenti tra loro, classificabili all'interno del perimetro formale del genere. Interattive e non, queste opere sono organizzate sulla base di una varietà di strutture modali e generano, pertanto, diversi modelli di teatralità e di relazione fruitore-opera.
Ad esempio, una prassi diffusa almeno a partire dalla prima metà degli anni Sessanta era quella di accompagnare le esposizioni pittoriche o plastiche con suoni, per lo più di natura elettroacustica. Una simile consuetudine, che si riscontra fra l'altro a Firenze38 e a Torino39, richiama come modello le esperienze delle Musiques d'ameublement della prima metà del XX secolo. Il suono non è concepito per attirare l'attenzione, per stupire o scioccare, né come agente ludico o didattico, bensì come sottofondo, che accompagna il compiersi di un'altra azione e crea un'atmosfera peculiare.
La musica ambientale, adoperata per sonorizzare mostre o anche altri luoghi e altre occasioni, mette in atto una strategia comunicativa meno invasiva rispetto a quelle riscontrate nella disamina delle installazioni interattive: una strategia capace di comunicare uno stato d'animo senza attirare l'attenzione del fruitore, di lavorare sull'esperienza dello spazio senza però essere ascoltata in maniera attiva e cosciente. Una simile concezione implica ovviamente specifiche strategie compositive e multimediali, che vadano a incidere anche sulla concezione dello spazio e sulla dislocazione dei dispositivi.
Occorre anche sottolineare che le riflessioni sull'importanza e l'influenza dell'ambiente acustico sulla vita quotidiana non sono una novità degli anni Sessanta-Settanta, ma erano state già in precedenza al centro di un dibattito che aveva coinvolto artisti e architetti. Da questo dibattito scaturirono numerosi progetti, prototipi e anche alcune opere, tanto dal punto di vista compositivo intermediale (in particolar modo con Cage e con un'ampia schiera di artisti newyorkesi di diverse inclinazioni, da fluxus ai precursori dell'earthwork), quanto da quello architettonico: si può ad esempio citare la Maison à cloisons invisibles realizzata da Nicolas Schöffer nel 1957, una casa suddivisa in diversi ambienti, ognuno dei quali è pensato, in tutte le sue dimensioni, per veicolare emozioni legate allo spazio per cui è progettato, attraverso un design che coinvolge anche la sfera acustica.40 Siamo quindi di fronte a una riflessione sul design acustico e sul paesaggio sonoro, dalla quale scaturiscono numerose sperimentazioni in grado di rimettere in discussione la relazione tra ambiente e fruitore.
Già in seno al gruppo Gutai si sviluppa un'installazione ambientale sonora, ibrido tra installazione, scultura sonora e opera di land art, che si inscrive nell'ampio lavoro sull'arte ambientale, o environmental art, condotto dall'intero gruppo, soprattutto negli anni Cinquanta: si tratta del Semaforo di un passaggio a livello installato da Akira Kanayama nella pineta di Ashiya, vicino a Kobe, nel 1956. Riporto di seguito la descrizione che ne fornisce Yoshihara nell'ottobre del 1956 sul 5° volume di Gutai:
L'altro lavoro di Kanayama era costituito da una campana di un passaggio a livello presa in prestito da una società ferroviaria e collocata in una mostra. Due luci segnaletiche rosse si accendevano alternativamente e la campana suonava di continuo. Il suo ritmo coincideva con quello della luce elettrica dell'opera di Tanaka41 e ammantava il luogo espositivo di una strana atmosfera.42
È importante sottolineare come, essendo l'esposizione all'aperto in una pineta, il segnale sonoro era udibile anche a una certa distanza dal dispositivo, il quale però non era visibile. Dunque, soprattutto la componente sonora conferiva all'ambiente circostante e, più in generale, all'intero spazio espositivo una "strana atmosfera". Quest'opera differisce dai coevi esempi di scultura sonora, un genere che nel 1956 aveva ormai una lunga storia alle spalle, poiché il suono e l'oggetto non sono concepiti come scultura, ma come avviso sonoro. Kanayama da una parte rinuncia alla ricerca del bello per abbracciare il puro materiale, secondo i dettami dell'estetica Gutai; dall'altra, decontestualizzando un segnale sonoro di uso quotidiano, ottiene un duplice scopo: far riflettere il fruitore sul segnale stesso, farglielo vedere sotto una nuova luce e, inoltre, ammantare di una specifica aura la fruizione dell'intero ambiente installativo.
All'interno del primo repertorio di installazioni sonore è possibile individuare un'ulteriore sotto-tipologia: le opere ibride tra installazione e assemblage sonoro. È noto, infatti, che le origini storiche dell'installazione sono radicate anche in una forma d'arte non performativa né interattiva, quale l'assemblage.43 Pertanto, non stupisce riscontrare anche nel periodo iniziale di sviluppo dell'installazione sonora alcuni ibridi tra queste forme: cito, tra tutte, l'opera realizzata da Yasunao Tone in una galleria di Tokio nel 196244, in cui l'artista giapponese coprì un altoparlante che diffondeva un nastro riprodotto in loop continuo con un velo bianco, e Oracle di Robert Rauschenberg (1962).45
L'artista l'ha definita un Environment: l'opera si componeva di 5 oggetti metallici di materiale recuperato, di provenienza tecnologica, a ognuno dei quali Rauschenberg, in collaborazione con Billy Klüver, direttore dell'importantissimo programma Experiments in Art and Technology con il quale l'artista ha a lungo collaborato, aveva integrato un diffusore comandato da un'antenna, che captava le onde emesse da una radio. Ciascuna radio era sintonizzata su una frequenza diversa e in tal modo ogni "pezzo" diffondeva suoni differenti. Ogni oggetto, dislocato nell'ambiente, diventa in tal modo generatore di suoni. Il suono, cambiando in base al tempo e al luogo di installazione, rende ogni esecuzione dell'opera un evento unico, sempre diverso, site-specific, irripetibile. Il fruitore può spostarsi intorno e tra gli oggetti. Ciononostante, non si può propriamente parlare di installazione, in quanto il punto focale dell'opera sono gli oggetti, non lo spazio all'interno del quale essi sono inseriti. Il fruitore, pertanto, partecipa solo in maniera parziale dello spazio dell'opera, vi passa accanto, ma non vi appartiene. Quanto alla dimensione modale, egli non può interagire con l'opera ma la osserva dall'esterno, portato a riflettere sulla sua dimensione simbolica, in particolar modo sugli aspetti sociali della tecnologia, sulla sua natura. A differenza di quanto osservato nelle installazioni interattive e in quelle ambientali, il fruitore in questo caso è osservatore cosciente, sollecitato a riflettere in maniera attiva sul significato dell'opera. Egli non appartiene all'opera e al suo spazio, ma la osserva, vi ragiona sopra, la contestualizza e la decontestualizza. Il fruitore interpreta l'opera sulla base di forme di conoscenza di tipo rappresentativo, inscrivendola in un orizzonte di senso creato attraverso la stratificazione culturale: un meccanismo dunque radicalmente differente da quelli osservati in precedenza.
Una struttura modale e una concezione teatrale simili si riscontrano in un numero significativo di opere coeve, fra cui l'assemblage paikiano Destroyed Piano with 28 Documents del 1961, così come in altre opere dell'artista coreano o di altri artisti, ad esempio Joseph Beuys. Quest'ultimo sfrutta la valenza simbolica del pianoforte quale retaggio della cultura borghese tedesca di tradizione ottocentesca in un'importante installazione come Plight, concepita nel 1962, o nella scultura Infiltration homogène pour piano à queue del 1966: la musica non viene qui adoperata per la sua capacità di influire sulla percezione e sulle emozioni del fruitore, e non viene neppure suonata, ma assunta come simbolo culturale, come feticcio. Le strutture cognitive sollecitate nel fruitore sono dunque differenti da quelle osservate nel caso delle installazioni interattive e ambientali analizzate in precedenza. Esistono altri sottogeneri dell'installazione sonora rappresentati nel primo decennio di vita del genere, che non saranno qui trattati, poiché un'analisi dettagliata condurrebbe troppo lontano. Mi riferisco in particolar modo alle installazioni "minimaliste" e immersive, che diverranno importanti soprattutto dopo il 1967, e alle "installazioni concertanti", a loro volta suddivise in non interattive e interattive, queste ultime ibridi tra installazioni, concerti/perfomance e happenings.
4. Conclusioni
Una delle principali caratteristiche dell'installazione sonora è il coinvolgimento attivo del fruitore nell'opera. Questa caratteristica è determinata dal fatto che egli deve entrare all'interno dello spazio dell'opera. Nella misura in cui il fruitore partecipa dello spazio dell'opera e diviene elemento imprescindibile per determinarne lo statuto, l'opera trova la sua definizione nella creazione dell'esperienza del fruitore stesso. In tal modo un genere definito attraverso una dimensione mediale e spaziale agisce su una dimensione modale e temporale. In tal senso l'opera è interpretata quale matrice di un processo di creazione di un'esperienza nei confronti di, da parte di, o assieme con, il fruitore.
Nel corso della trattazione sono state analizzate diverse forme di teatralità dell'opera, ossia diverse strutture modali, relative a installazioni sonore composte entro il 1966, fino alla coniazione del termine che definisce il genere. Le analisi hanno evidenziato numerosi modelli di interazione opera-fruitore, sia nel campo delle installazioni interattive, sia di quelle non interattive. La genesi del genere ha molteplici fonti, e radici ben salde nelle avanguardie artistiche della prima metà del XX secolo. L'ampio ventaglio di sperimentazioni riscontrate corrisponde a un panorama multiforme e in movimento che, sulla base di fondamenta estetiche sorte già nella prima metà del secolo, si sviluppa in maniera vieppiù vorticosa a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
L'interesse verso la creazione di opere sonore che coinvolgono il fruitore all'interno del loro spazio nasce contemporaneamente in diverse parti del mondo, tra cui l'Italia, la Francia, il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti, peraltro in cerchie artistiche sovente distanti fra loro46, e si manifesta in diverse forme d'arte, dall'ambito strettamente musicale, come nel caso del celebre Philips Pavillon, all'architettura, alla pittura, alla scultura e alle varie forme di performance art sviluppatesi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il genere nasce dunque dall'intersezione di problematiche estetiche che sorgono contemporaneamente in diversi campi dell'avanguardia artistica, nella composizione musicale così come nelle arti plastiche e in quelle performative.
La poliedricità delle strutture modali ravvisate nell'analisi delle opere dimostra che nei primi anni non si era affermata una scuola o una prassi consolidata, né tanto meno un genere ben definito e delimitato nei confini formali, nonostante stessero già nascendo le prime teorizzazioni di forme specifiche, come l'Environment, il Sound Environment, la Raummusik e la Music/Sound Exposition. Queste forme, in ogni caso, si sono sviluppate all'interno di un panorama ampio e in rapido movimento, in cui l'obiettivo degli artisti non era la ricerca di una definizione di confini formali o di nuovi generi, ma la sperimentazione di nuovi materiali, modi di fare arte, forme sociali del fatto artistico, e quindi nuove modalità di coinvolgimento degli spettatori. Si rompe la forma-concerto, e con essa la distanza che separa il fruitore dall'esecutore e, più in generale, dal fatto musicale. La vecchia forma, però, non viene sostituita da un'unica nuova forma, ma da una molteplicità di esperienze di natura poliedrica. Una tale molteplicità riflette bene la pluralità degli ambienti da cui ha origine l'interesse per la composizione di spazi sonori. Si è dunque in presenza di una convergenza di interessi e di questioni estetiche in diversi ambiti: dalla ricerca di nuove dimensioni sociali della fruizione del fenomeno sonoro a quella di nuovi spazi e forme spaziali per la creazione musicale, che convergono in una sperimentazione continua di nuovi modi di intendere la relazione tra fruitore e opera.
Nel corso della trattazione si è operata una duplice suddivisione: da una parte tra opere interattive, che richiedono e reagiscono all'azione del fruitore, e opere non interattive; dall'altra, in particolare, si è cercato di distinguere le diverse modalità secondo cui le opere coinvolgono il fruitore, identificando quali forme della conoscenza siano di volta in volta sollecitate: a tal fine sono state individuate opere basate su una conoscenza di tipo rappresentativo, opere immersive, opere partecipative, opere 'di sottofondo', eccetera. L'analisi condotta consente di affermare che, fin dalle origini, l'installazione sonora si muove all'interno di un'articolata rete di forme tra loro diverse. O meglio, l'installazione sonora nasce grazie all'interesse, non sistematico, degli artisti per la sperimentazione di nuove forme nell'ambito della dimensione modale, che ciascuno conduce secondo la propria poetica. L'interesse che gli artisti nutrono, nel corso degli anni Cinquanta-Sessanta, nei confronti di questa dimensione, ossia la sperimentazione di nuove strutture modali, comporta una rottura delle altre dimensioni del fare artistico, dagli spazi fisici e sociali a forme, stili e convenzioni. L'elaborazione di nuove forme di coinvolgimento del fruitore comporta infatti una rivoluzione nella concezione dello spazio e del tempo dell'opera, che devono adeguarsi alle modalità comunicative ricercate. L'esistenza di nuove forme di teatralità dell'opera, e di nuove modalità di relazione opera-fruitore, indica la presenza di un terreno fertile, sul quale sorgeranno molteplici generi, tra cui l'installazione sonora.
L'analisi di queste forme travalica gli stretti confini formali dei generi e non è un mero esercizio accademico; al contrario, seguendo l'evoluzione storica delle forme di partecipazione, si può ricostruire una storia delle principali problematiche estetiche della sound art del secondo Novecento. I cambiamenti che avvengono nella dimensione modale, infatti, definiscono le poetiche degli artisti, delimitano i perimetri delle scuole e segnalano vere e proprie cesure storiche. Le forme dell'interattività degli anni Cinquanta-Sessanta, ad esempio, sono differenti rispetto a quelle attuali e prevedono un'accentuazione della dimensione sociale dell'opera, a partire dalla sua funzione straniante-didattica, riconducibile anche alla novità per gli spettatori della disgregazione delle forme artistiche e della rinuncia a una fruizione meramente contemplativa, fino alle forme di responsabilizzazione dei participant.
Le poetiche degli artisti sono definite più dalle tipologie di esperienza che essi intendono creare, dal modo in cui le loro opere investono i fruitori, che dalla scelta dei materiali e delle tecniche di lavoro, e sicuramente ancor più che dalla scelta di specifici generi artistici. Artisti come Gallizio, Kaprow, Beuys, Paik, ma anche Cage e Schnebel instaurano modalità proprie di comunicazione con i fruitori, che ne definiscono la pratica artistica al di là dei generi che affrontano di volta in volta. Ad esempio, una fruizione di tipo meditativo-immersiva caratterizza quasi l'intero corpus di La Monte Young, così come quella partecipativa, volta a un'assunzione di responsabilità, è attribuibile alla produzione di Kaprow e quella straniante, partecipativa e ironica è propria dell'universo paikiano. Analogamente, l'irruzione delle pratiche di tipo immersivo sul volgere degli anni Settanta, in particolare dal 1968–69, segna una svolta storica capace di inglobare il dilagare delle installazioni sonore minimaliste, insieme con la nascita della virtual art e dell'interattività digitale a partire dal lavoro di Myron Krueger.
Il primo decennio di vita dell'installazione sonora, dal 1955 al 1966, è caratterizzato, sul piano delle architetture modali, dalla compresenza di numerosi modelli, diversi tra loro. La ricerca degli artisti si sviluppa in un primo momento secondo traiettorie personali, fortemente caratterizzate in tale dimensione; i decenni successivi, invece, vedranno una maggiore standardizzazione e definizione dei modelli, ognuno dei quali sarà sviluppato da più artisti, scuole e in periodi ben definiti.
1 Cfr. Max Neuhaus e William Duckworth, "Interview (New York 1982)", in: Max Neuhaus, Max Neuhaus. Sound Works, vol. 1, Ostfildern 1994, pp. 42–49. L'attribuzione della locuzione a Neuhaus viene confermata anche dalle più recenti pubblicazioni in materia, come a p. 232 del saggio di Helga de la Motte-Haber, "Zwischen Performance und Installation", in: Klangkunst. Tönende Objekte und klingende Räume, a c. di Helga de la Motte Haber, Regensburg 1999 (Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, vol. 12), pp. 229–280, oppure da Golo Föllmer, "Mitten im Leben. Klanginstallation, Klangkunst, Alltagsklänge", in: In medias res. Fotographie und andere Medienkunst aus Berlin, a c. di Angelika Stepken e René Block, Berlin 1997, pp. 37–42, p. 25 del saggio di Volker Straebel, "Zur frühen Geschichte und Typologie der Klanginstallation", in: Klangkunst, a c. di Ulrich Tadday, München 2008, (Musik-Konzepte, Sonderband, vol. 11), pp. 24–46.
2 Cfr. Straebel, "Zur frühen Geschichte und Typologie" (v. nt. 1) e id., "Klangraum und Klanginstallation" in: Klangkunst, a c. di Helga de la Motte Haber e Akademie der Künste Berlin, München, New York 1996, pp. 219–221, p. 219 s.
3 Cfr. Giacomo Albert, "'Sound installations' e 'sound sculptures'", in: Acoustical Arts and Artifacts. Technology, Aesthetics, Communication. An International Journal 7 (2010), pp. 37–87.
4 Jane Turner, articolo "Installation (Environment)", in: The Dictionary of Art, a. c. di Jane Turner, vol. 15, London, New York 1996, pp. 868–870, p. 868.
5 Cfr. G. E. Lessing, Laocoonte, a.c. di Michele Cometa, Palermo 2000.
6 Julie H. Reiss, From Margin to Center. The Spaces of Installation Art, Cambridge, Mass. 1999, p. 11.
7 Reiss, From Margin to Center (v. nt. 6), p. 13.
8 Per la definizione di architettura mediale e di struttura modale, cfr. Albert, "'Sound installations' e 'sound sculptures'" (v. nt. 3), pp. 57–69.
9 Brian O'Doherty, Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space, Santa Monica 1986, p. 41.
10 Nel caso di Yoshihara, ad esempio, pur mancando riferimenti diretti nel celebre Manifesto del Gutai, si leggono simili preoc-cupazioni in numerosi scritti; ad esempio, parlando dell'Opera da calpestare di Shozo Shimamoto, il maestro sottolinea come si trattasse di un "esemplare fatto per essere compreso dall'osservatore con tutto il corpo e l'aiuto dei nervi motori", e che "in quanto intermediario tra la persona che produce e quella che sente, la sua opera d'arte segnerà l'inizio di un'era" (Jiro Yoshihara, "Sulla prima mostra Gutai", in: Gutai. Dipingere con il tempo e lo spazio, a. c. di Marco Franciolli, Cinisello Balsamo, Milano 2010, pp. 224–227). La grande rivoluzione introdotta dall'opera di Shimamoto sta dunque, secondo le parole dello stesso Yoshihara, pubblicate nel 1956 sul quarto numero della rivista Gutai, nel rinunciare all'autonomia dell'opera e nel riporre il suo significato nell'atto del creare l'esperienza del fruitore. Il fruitore entra pienamente nello statuto dell'opera, anche nelle riflessioni degli artisti.
11 Si veda il breve ma denso articolo riassuntivo di questa storia redatto da Erika Fischer-Lichte, "Theatricality. A Key Concept in Theatre and Cultural Studies", in: Theatre Research International 20 (1995), no. 2, pp. 85–89.
12 Si fa in particolar modo riferimento a Michael Fried, "Art and Objecthood", in: Artforum 5 (1967), pp. 12–23; cfr. anche id., Absorption and Theatricality. Painting and Beholder in the Age of Diderot, Berkeley, Calif. 1980.
13 La posizione qui espressa si basa su un'indagine nel mondo della cosiddetta musica d'arte, da cui è esclusa la produzione sonora nell'ambito dell'environmental art antecedente i primi del Novecento, dalle arpe eolie agli automi musicali.
14 Cfr. ad esempio Man Ray, Man Ray – Selbstporträt. Eine illustrierte Autobiographie, trad. di Reinhard Kaiser, München 1983, p. 274; oppure Ian Dunlop, The Shock of the New. Seven Historic Exhibitions of Modern Art, London 1972, pp. 198–223; oppure anche Bruce Altshuler, The Avant-Garde in Exhibition. New Art in the 20th Century, New York 1994, pp. 116–135.
15 Cfr. ad esempio Karlheinz Stockhausen, Texte zur Musik. 1963 – 1970. Einführungen und Projekte, Kurse, Sendungen, Standpunkte, Nebennoten, vol. 3, Köln 1971, pp. 143–153 e pp. 212–223.
16 Ringrazio John Driscoll, compositore, musicista, collaboratore di Tudor per molti anni, nonché coesecutore delle numerosissime riprese di Rainforest IV insieme ai Composers Inside Electronics, per avermi concesso un interessante colloquio-intervista in cui definiva con queste parole l'opera in questione.
17 De la Motte-Haber, Klangkunst (v. nt. 1), pp. 244–256.
18 Ristampata in edizione anastatica moderna in Oskar Schlemmer, László Moholy-Nagy e Farkas Molnar, Die Bühne im Bauhaus, ristampa anastatica, Berlin 1985, pp. 46–56.
19 Nel 1930 Moholy-Nagy aveva già concepito anche un progetto, mai realizzato, per una stanza di proiezione audiovisiva interattiva presso il Landesmuseum di Hannover, in collaborazione con il direttore Alexander Dorner (Cfr. Samuel Cauman, The Living Museum. Experiences of an Art Historian and Museum Director: Alexander Dorner, New York 1958). All'interno di questo progetto la dimensione partecipativa del fruitore era ulteriormente rafforzata, divenendo determinante nella definizione dell'opera stessa.
20 Ovviamente una simile osservazione non riguarda tutte le installazioni sonore, come si può ad esempio rilevare in alcune delle "installazioni concertanti" precedentemente citate, ma vale come principio ispiratore di un genere che si fonda sulla composizione della dimensione spaziale, e che solo in conseguenza di tale composizione viene definito anche nella dimensione temporale.
21 Dell'originalità di quest'opera nel panorama artistico coevo erano già pienamente coscienti gli artisti Gutai dell'epoca, basti pensare alle parole di Shozo Shimamoto, "Is a piece of cloth also a work of art?", in: Gutai 4 (1956), pp. 31–32, p. 31 secondo cui l'artista "grazie alla figurazione spaziale del suono dei campanelli ha inaugurato la rappresentazione di opere, forse le prime nella storia delle arti visive, di cui non si vede il luogo […] Le opere di Tanaka mi hanno mostrato un modo di sperimentare la bellezza da me mai sperimentato neanche nell'ambito della produzione d'avanguardia" (Shozo Simamoto, "Anche un pezzo di stoffa è una creazione artistica?", in: Franciolli, Gutai (v. nt. 10), pp. 222–224).
22 Per una ricostruzione filologica moderna delle diverse versioni dell'opera, cfr. Mizuho Kato, "Atsuko Tanaka's 'Paintings', as seen through Work (Bell)", in: Atsuko Tanaka. The Art of Connecting, a. c. di Jonathan Watkins e Mizuho Kato, Birmingham 2011, pp. 39–105. Si veda anche Alexandra Munroe, Japanese Art After 1945. Scream Against the Sky, New York 1994, pp. 97–112.
23 Cit. da Yuko Hasegawa, "Preface", in: Watkins e Kato, Atsuko Tanaka (v. nt. 22), p. 6.
24 Yuko Hasegawa, "Network Paintings. Prophecies of the Present", in: Watkins e Kato, Atsuko Tanaka (v. nt. 22), pp. 13–28.
25 Yoshihara, "Sulla prima mostra Gutai" (v. nt. 10), p. 226.
26 Si veda a questo riguardo l'osservazione del futuro marito dell'artista a proposito della gestione del volume nella seconda versione dell'opera, cfr. Akira Kanayama-Tokutaro e Yamamura-Shin'ichiro Osaki, "Tanaka Atsuko-shi intabuyu", in: Gutai shiryoshu – dokyumento Gutai 1954–1972, a. c. di Shiritsu Bijutsu Hakubutsukan, Ashiya City 1993, p. 397.
27 Si fa qui riferimento al concetto di participant elaborato da Allan Kaprow per definire i fruitori dei suoi Environments e dei suoi Happenings. Un concetto già elaborato nel 1958, all'epoca dei primi Environments, come testimoniato dalla sua presenza nei saggi: Allan Kaprow, "The Legacy of Jackson Pollock", in: Essays on the Blurring of Art and Life, a c. di Jeff Kelley, Berkeley/Los Angeles 1993 (Lannan Series of Contemporary Art Criticism, vol. 3), pp. 1–9, ed. or. in: The Art News 57 (1958) no. 6, pp. 24–26 e pp. 55–57 e anche in Allan Kaprow, Notes on the Creation of a Total Art, New York 1958. La dimensione partecipativa ne implica una sociale e collaborativa; cfr., a riguardo, Claire Bishop, Participation, Cambridge/Masachussetts 2006, e The Art of Participation. 1950 to Now, a c. di Rudolf Frieling e San Francisco Museum of Modern Art, New York, London 2008.
28 Si noti, infatti, la somiglianza tra Words e le poche installazioni del maestro di Kaprow: da 33 and 1/3 (1969), una stanza in cui i fruitori potevano scegliere come gestire 12 grammofoni, a Newport Mix (1967), in cui gli spettatori dovevano creare un anello di nastro che sarebbe poi stato diffuso durante la cena da un magnetofono. In ogni caso, l'importanza di Cage nella concezione partecipativa dell'opera d'arte è sovente messa in risalto, ad esempio in in Bishop, The Art of Participation (v. nt. 27), pp. 82–85.
29 Liliana Dematteis ha recentemente avanzato l'ipotesi che il Tereminofono non sia stato adoperato per l'installazione parigina, dal momento che le ricerche d'archivio non hanno permesso il ritrovamento delle bolle di spedizione. Ringrazio molto la Sig.ra Dematteis per avermi segnalato questa possibilità.
30 È interessante osservare come, pochi anni prima, Nicolas Schöffer e Pierre Henry abbiano realizzato un meccanismo abbastanza simile a quello previsto da Gallizio: sei nastri realizzati da Henry, che vi aveva registrato suoni prodotti da un'altra scultura cinetica di Schöffer, erano gestiti in parallelo a partire dalla trasduzione del movimento di una scultura cinetica realizzata da Schöffer, una torre mobile di 50 metri, che a sua volta reagiva all'ambiente circostante, la Tour spatiodynamique, cybernétique et sonore.
31 Cfr. Francesca Comisso, "Tereminofono", in: Pinot Gallizio. Il laboratorio della scrittura, a c. di Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Maria Teresa Roberto, Milano 2005, pp. 214–216.
32 Albert, "'Sound installations' e 'sound sculptures'" (v. nt. 3), p. 60. [Le parole in carattere italico sono sottolineate nel testo originale.] Si possono infatti notare alcune discrepanze rispetto alla versione finale: almeno gli specchi e la musica d'ambiente saranno assenti dalla versione finale. Ciononostante si è scelto di riportare il passo dalla lettera per comprendere la poetica di Gallizio, ciò che egli intendeva realizzare.
33 Albert, "'Sound installations' e 'sound sculptures'" (v. nt. 3), p. 60.
34 Albert, "'Sound installations' e 'sound sculptures'" (v. nt. 3), p. 61.
35 Per una puntuale descrizione, ricostruzione e analisi dell'esposizione paikiana del 1963 si faccia riferimento al recente volume Nam June Paik: Exposition of Music. Electronic Television. Revisited, a c. di Susanne Neuburger, Köln 2009. Per un'analisi delle tecniche di costruzione dell'esperienza nelle installazioni paikiane, cfr. Giacomo Albert, La dimensione sonora nelle opere di Nam June Paik e Bill Viola, Phil. Diss. Università degli Studi di Pavia 2011, pp. 53–80.
36 Il dispositivo di trasduzione intermediale, e quindi il collegamento audio-visivo, seguono quello analogo della Participation TV di Paik di pochi anni precedente.
37 Tra le numerose pubblicazioni sull'argomento si veda l'ottimo studio di Söke Dinkla, Pioniere interaktiver Kunst von 1970 bis heute. Myron Krueger, Jeffrey Shaw, David Rokeby, Lynn Hershman, Grahame Weinbren, Ken Feingold, Ostfildern 1997.
38 Si vedano ad esempio le testimonianze di tale prassi in Teresa Rampazzi, "Musica come servizio", in: film special 2 (1970), pp. 46–48; Albert Mayr, "Lo studio di fonologia di Firenze S 2F M", in: Musica/Tecnologia 1 (2007), pp. 91–96, p. 94 e Francesco Giomi, "Scuole storiche italiane di musica elettronica", in: Quaderni di Musica/Realtà 51 (2002), pp. 73–91.
39 Cfr. Giacomo Albert, "Enore Zaffiri: musica in campo allargato", in: Enore Zaffiri: l'esperienza storica della musica elettronica a Torino, a c. di Andrea Valle e Stefano Bassanese, in corso di pubblicazione, Torino prev. 2012.
40 Per l'importanza della dimensione acustica nel pensiero architettonico e urbanistico di Schöffer si può consultare, ad esempio, Nicolas Schöffer, Die kybernetische Stadt, trad. di Brigitte e Rudolf Strasser, München 1970, p. 78 s.
41 N.d.R.: opera composta da figure umane gigantesche illuminate tramite lampadine collocate al loro interno, la cui accensione e spegnimento erano determinati dall'artista.
42 Jiro Yoshihara, "La seconda mostra all'aperto di Gutai", in: Franciolli, Gutai (v. nt. 10), pp. 227–229.
43 Lo stesso Kaprow afferma che l'Environment, genere proto-installativo, deriva dall'assemblement, cfr. Allan Kaprow, Assemblage, Environments & Happenings, New York 1966, p. 159. La parentela tra assemblage e installazione è sottolineata in numerosi trattati sul genere, ad esempio alla voce di Turner, "Installation (Environment)" (v. nt. 4), pp. 868 ff. Cfr.
44 Alan Licht, "Sound Art. Origins, Development and Ambiguities", in: Organised Sound 14 (2009), no. 1, pp. 3–9, p. 5.
45 Riguardo Oracle, cfr. Melissa S. Geiger, Robert Rauschenberg's "Oracle", "Soundings" and "Carnal Clocks". A Socio-historical Critique, Phil. Diss. Pennsylvania State University 2005, pp. 22–79.
46 Per limitarci al solo Giappone, ad esempio, si è considerato il repertorio del Gutai, ma degne di nota sarebbero anche le opere degli anni Sessanta di Toshi Ichiyanagi, da quella realizzata a Takamatsu City nel 1964 fino al Tokio Department Store del 1966, oltre ai lavori degli artisti fluxus Yasunao Tone e Takehisha Kosugi.